Vera D’Atri nata a Roma nel marzo del 1948. Per la prosa nel 2011 è tra i vincitori di: “La vita in prosa” e “Scrivere a corte”. Per la poesia nel 2012 è finalista al  Mazzacurati. Terza al Di Liegro. Nel 2009 pubblica  Una data segnata per partire cui segue il romanzo Buona bella brava edito dalla Robin di Roma e nel 2013 la plaquette Una tenace invadenza. Inoltre è terza classificata al M. Sovente ed è presente in diverse antologie e blog. Nel 2016 primo premio Castello di Prata al concorso L’iguana (omaggio alla Ortese)  con la pubblicazione Il fortino, edito da Terra d’ulivi. Da poco è uscito l’ultimo lavoro La gioia dell’acerbo per la Ladolfi edizioni.  




*



La punta dell’aria 
prende fuoco; infinite udienze,
infiniti rossori nel gelo.

L’aria nel suo cristallo 
brucia fuggite ore, soltanto 
un volo può trovarti ancora.




*



Mi libererò dell’aria 

e dell’insieme del giorno.

Da notte a notte
una rivolta accatastata su me stessa,
sasso, fionda, poi scricciolo sul ramo,
nessuna gravità, solo innocenza
e quanto di mansueto in me
mi lascerà morire.

Finirà come ogni altra fine.

Un doppio fondo che racchiude
il clandestino, il debito della conoscenza
da restituire.



*



Un fantasiare acefalo

minutamente agisce.

Odore di sventura nella casa:
umidità, macchie.

Ma fuori la vita si prepara al fiore,
ogni stelo è una candela accesa.



*



Nel tramonto che tiene

e lega la cordata un silenzio
strofinato sui fornelli, una nenia 
semplice che al sottovoce va 
a confondersi per gradi.

La consuetudine direi, 
la masticazione lenta dello stare
assieme da una vita, la gran riuscita
di noi due, l’effettuata traversata
del mistero.



*



Antica, antica sono nata

e antica mi conservo, lavorio d’inganno
e di saldezza, ordito di memoria, rete, giudizio,
la vita mia al lieto fine impiglia e tutta rosa
di bisticci e nausee riprende ogni mattina
al femminile.

Estenuanti i giorni imperfettibili
del mito, ago ad ago nella vasta attesa, pedanti, 
dediti al puntiglio, esperti i nodi tra le dita,
scaltri come i suoi passi disgiunti
dalla meta.

Ho sempre saputo che grazia 
e mansuetudine in brecce d’amore sanno
mutar le piaghe, anche se per me langue di
rossore la voglia magra di ferir l’amato,
ma so che non c’è sentenza che mi sia
sorella perciò io mi rammendo e 
lo rammento al cuore.

Ora intona a vento la sua prua.
Torna davvero al mio conficcato orgoglio
al giglio pesto che stralunata veglio.

E siede nella sua casa
e ancora tiene la distanza, satellite di me
sbiadito e matto, luna di maschio che m’attraversa
a sguincio, ispida, callosa, notturna frustrazione
e Itaca non sa, lo coma di insolenze.

Io no. Perché dovrei dolermi?
Itaca non ha remi, non dondola nel mare,
è questa terra su di me decreto e come la riva,
vissuti i freddi abbracci, al naufrago porgo
diletto e piede.


*


Solo il poco è voluto esistere.


Solo una nuvola all’altezza del cuore,
un’ombra che insanguina il mare.





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