Domenico Cambareri
Letteratura e teologia
Carlo Coccioli e Pier Vittorio Tondelli
Un'indagine
Prefazione di
Mons. Matteo M. Zuppi, Arcivescovo di Bologna
pag. 104, cm 21 x 16
febbraio 2017
Immagine di copertina: alla chiara fonte
Il progetto di “Teologia letteraria”
di Jean Pierre Jossua
La riflessione sulla Teologia letteraria a cui vorrei introdurvi, vuole essere un ulteriore contributo teologico, alla ricerca che la teologia conduce verso il grande mondo del letterario, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Cominciai a concentrarmi di più sulla questione quando si trattò di decidere l’argomento della tesi di Licenza in teologia; in più ebbi un’intuizione fondamentale che mi veniva dal lavoro pastorale che riguardava l’utilizzo di alcuni romanzi moderni per il lavoro coi gruppi giovanili. L’approfondimento maggiore avvenne scrivendo la tesi con cui mi licenziai nel 2012, “Alleanza tra teologia e letteratura”, un’analisi letteraria dell’opera dello scrittore reggiano Pier Vittorio Tondelli, con cui tentai di segnalare la portata teologica di alcuni passaggi del suo ultimo romanzo “Camere separate”. Il mio approfondimento sull’argomento letteratura – teologia è proseguito con il conseguimento della Laurea Magistrale in Italianistica, Lingua e cultura italiana, Scienze del linguaggio, nel novembre 2015, presso l’Università di Bologna. Anche qui ho proseguito ad esplorare le riflessioni sulla letteratura e la teologia, verificando le intuizioni del teologo francese Jean-Pierre Jossua (1930)[1] per poi osservarne “in azione” il metodo di lavoro, costruendo un confronto tra due romanzi, rispettivamente di Carlo Coccioli e Pier Vittorio Tondelli, “Fabrizio Lupo” e “Camere separate”. E così giungo alla Facoltà Teologica di Firenze per presentare il mio progetto di Dottorato.
Intendo vivere questo lavoro dottorale come un’occasione per rendere più seria e meno improvvisata la mia ricerca. Ricerca che non è affatto originale; si nutre della convinzione che siano moltissime le possibilità di arricchimento reciproco da un incontro, uno scambio, un dialogo tra questi due universi.
La paura di improvvisarmi critico letterario e fraintendere i principi ermeneutici della disciplina, mi hanno condotto prima ad incontrare, poi ad approfondire il pensiero del padre domenicano Jean-Pierre Jossua. Da quasi quarant’anni è impegnato nella critica letteraria, ed è padre di quella disciplina che lui stesso definì per la prima volta “Teologia letteraria”. In lui ho trovato una analogia biografica e, più di una, teologica. Egli muove da due convinzioni fondamentali: il rispetto dell’autonomia della letteratura e degli autori e la possibilità per la teologia di, soprattutto, imparare qualcosa dalla frequentazione dei testi letterari.
Rispetto ed occasione dunque. Perché queste due raccomandazioni? Perché Jossua giunge a notare due grandi rischi per i teologi interessati alla letteratura (pochi per la verità). Il primo è quello di “battezzare” gli autori, cioè analizzare i testi per poter poi supporre una appartenenza, più o meno consapevole, al pensiero della Chiesa; magari fornendo anche una griglia di valutazione in base alla “vicinanza” o “lontananza” dal dato dogmatico della fede cristiana. L’altro è che forse proprio il linguaggio letterario potrà permettere alla teologia di riflettere sul modo con cui comunica la fede, su che linguaggio esprime, ma anche all’ascolto della vita, della sua esperienza che viene filtrata e trasmessa dalla letteratura. La teologia non deve temere e può solo arricchirsi se capace di ascoltare questo luogo d’espressione dell’umano.
Non solo Jossua. Altri teologi avvertirono l’urgenza di riprendere il dialogo con il mondo della cultura in genere e della letteratura in specie. Anche il mondo germanico ha dato il suo contributo, penso a Romano Guardini e a Karl Rahner. Quest’ultimo fu sempre guidato dall’assioma per cui non si potesse arrivare al mondo religioso senza passare da quello profano. Così scriveva:
I valori mondani e umani non possono o devono venir apprezzati unicamente in base alla loro importanza meditativa o strumentale, nella loro utilità rispetto al valore religioso. Dovunque il valore mondano, l’elemento meramente umano viene considerato – per miopia clericalistica – soltanto nel suo lato utilitaristico ai fini del fattore religioso strettamente inteso o peggio ancora di quello esclusivamente ecclesiastico, esso intristisce e muore, finendo così con il perdere anche la sua importanza nei confronti del valore religioso. Invece è proprio il valore prettamente mondano, il fatto genuinamente e direttamente umano, che riveste un’importanza fondamentale agli effetti religiosi. Allorché l’uomo si ostinasse ad essere soltanto l’homo religiosus, pretendendo di attingere linfa vitale immediatamente e in modo esclusivo dall’impulso dichiaratamente cristiano, finirebbe con l’impoverirsi anche dal lato umano, e di conseguenza non sarebbe nemmeno più un soggetto spirituale atto a possedere dentro di sé i presupposti per un pieno sviluppo del fattore cristiano[2].
I frutti delle iniziative “mondane” non sono accessorie ma necessarie per la crescita del credente. La rivelazione cristiana è insufficiente. Frasi coraggiose quelle del teologo tedesco, gli procureranno non poche diffidenze. Anche il tentativo di Jossua, dal versante francofono, si iscrive tra le riflessioni che tanti teologi hanno e stanno compiendo sull’evidente iato che c’è tra pensiero cristiano e cultura contemporanea. Prima di concentrarmi sulla modalità di lavoro del teologo parigino riferisco la sua lettura delle cause che hanno portato a questa separazione, spesso conflittuale. Le cause remote rimontano al Rinascimento, tuttavia noi ci concentriamo sul periodo che seguì alla rivoluzione francese. Proprio da questo periodo storico si sofferma l’analisi del teologo. Da allora il razionalismo, l’emersione di ambiti culturali autonomi dalla chiesa, la scomparsa del referente religioso e l’indipendenza dalle istituzioni religiose hanno scavato un solco sempre più profondo tra la polis e l’ekklesìa. A ciò si aggiunga la reazione della Chiesa spesso sempre votata alla chiusura ed alla condanna di ogni tentativo di emancipazione della società dal suo controllo.
Questa situazione ha condotto la Chiesa a guardare con sospetto tutti i prodotti della cultura laica, ed anche la letteratura non è scampata a questa diffidenza. Innumerevoli sono le indicazioni ecclesiastiche sulla opportunità o meno di leggere testi di narrativa, molti autori erano considerati pericolosi per la dottrina e per la morale[3]. Jean-Pierre Jossua, che per formazione è un teologo dogmatico, dopo il Concilio Vaticano II si è sempre interrogato su come riaprire un dialogo con la cultura contemporanea, proprio in nome dei desiderata dei Padri conciliari. È da qui che nasce l’idea di costruire una “teologia letteraria” capace di offrire un metodo di approccio alla letteratura che non sia né apologetico né dilettantistico. Il teologo domenicano si dedica allo studio della letteratura che va dall’Ottocento in avanti ed in particolar modo della poesia che vede come la forma di linguaggio più feconda e prossima alla teologia.
La priorità del Nostro è la lettura disinteressata dei testi. Dalla lettura tenta poi una classificazione del “tenore esistenziale” di essi dividendoli in tre categorie[4]:
a. Testi letterari che intendono narrare fedelmente sistema dogmatico cristiano.
b. Testi che sono interessati a “tradurre” narrativamente i dogmi teologico-etici del cristianesimo senza utilizzare un linguaggio confessionale.
c. Testi che per figure, immagini e linguaggio testimoniano quella che lui definisce una quête de trascendance, un rimando, un anelito, una ricerca ad una qualsiasi manifestazione trascendente.
Sono consapevole, e Jossua è il primo, che tutte le classificazioni offrano motivo di obiezione. E così accade a questo triplice schema. Esistono infatti testi complessi, “promiscui”, che raccontano ricerche plurali di trascendenze. Da trascendenze “immanenti” a quelle psicologiche fino a quelle che riguardano il mondo religioso. Rispetto e stimo il lavoro del francese ma io credo sia ancora più utile, per la teologia, ricercare quello che definisco “scrittore vivente”. Questo concetto nasce da un dialogo col professor Fabrizio Frasnedi, compianto docente di Lingua e letteratura italiana dell’Università di Bologna, dopo la lettura che mi suggerì di George Steiner[5]. Lo scrittore vivente è colui che riesce a trasferire sul lettore un’esperienza di vita reale, credibile, attraverso il medium letterario. Questa “esperienza” viene allora recepita e vissuta come realistica perché tocca la vita delle persone ed apre alla riflessione, alla responsabilità di fronte al testo. Così il testo può raccontare quel mondo misterioso della fede oppure specchiare riflessioni che indirettamente interessano la teologia perché parlano di argomenti che non possono essere ignorati dalla sua ricerca. Non possono esserlo perché o nascono da una matrice cristiana oppure pongono domande (dirette o indirette) alla teologia attraverso il racconto di storie. La teologia stessa, lo ricordo, nasce proprio dal racconto (cfr. Primo e Secondo Testamento)[6].
Jean-Pierre Jossua si porrà alla ricerca, nella prosa e nella poesia moderne, prevalentemente francese, della portata “teologica” di certi autori. Posso anticipare che questa ricerca confermerà il quadro contemporaneo che denuncia un bisogno di religiosità che rimanda all’anelito di vivere una fede autentica, più attenta al soggetto, ed inclusiva. In fondo scrittori come Coccioli e Tondelli, in maniera implicita, auspicano la nascita dell’autentico uomo religioso: colui o colei che compiono “gesti religiosi” ma solo perché «toccati» nella vita dall’ingresso del divino. Cosi il sociologo Garardus van der Leeuw, autore dell’imprescindibile opera Fenomenologia della religione:
L’oggetto della religione è soggetto per la fede. Reciprocamente, il soggetto della religione è oggetto per la fede. La scienza delle religioni ha di fronte un uomo praticante, che offre sacrifici, prega, eccetera. La fede vede un uomo al quale è accaduta qualche cosa. La fenomenologia descrive la condotta dell’uomo nei riguardi della potenza, ma non deve dimenticare che quest’uomo determina egli stesso, la propria condotta o la modifica dopo esser toccato dalla potenza. Tutti i credenti si comportano in questo modo, dal primitivo che sente avvicinarsi la potenza e grida tabù!, fino all’apostolo che ci esorta ad amare Dio perché “Egli ci ha amato per primo”[7].
Molti autori accostati da Jossua, spesso senza saperlo, confermano l’intuizione del teologo francese per il quale, in una riflessione teologica rinnovata, sarà necessario anteporre l’esperienza della vita delle donne e degli uomini credenti alle formulazioni teologiche. La vita prima del dogma, o se si preferisce, il dogma al servizio della vita. Invito già presente in nuce nel messaggio gesuano: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27-28) e riformulato luminosamente dalle parole di Rainer Maria Rilke: «Per il resto lasciate fare la vita. Credetemi; la vita ha sempre ragione»[8].
“Une vie” è un diario che Jean Pierre Jossua scrisse nel 2001 e che vorrebbe essere una autobiografia, “non ragionata”, fatta per sprazzi ed illuminazioni esistenziali improvvise, in cui si concentrano tantissimi aspetti della vita del nostro teologo. Presenterei il profilo biografico ed intellettuale del nostro autore seguendo i dati offerti da questo testo. Questo lavoro ci permette anche di introdurre ed apprezzare una delle intenzioni di lavoro del francese. Quella di scrivere teologia in maniera letteraria. Per questo motivo egli sceglierà la forma del giornale, per permettergli una scrittura capace di offrire la voce interiore dell’autore che si autoconcentra sul proprio vissuto. Oltre ad apprezzarne la forma letteraria potremmo così passare in rassegna gli eventi importanti della sua vita, le persone significative della sua maturazione esistenziale ed il contesto culturale in cui è maturato il suo lavoro teologico.
Inserirei un excursus con cui affrontare la questione che porterà alla nascita della teologia letteraria. Quello della riflessione jossuaiana sul rapporto fede e cultura, come precedentemente anticipato, rapporto conflittuale anche oggi. Una lettura ed un’offerta di soluzione da approfondire. La prima è la constatazione di quella che Jossua definisce la “sub-cultura” cattolica; la seconda è la nascita, o il consolidamento, di una “Teologia del dialogo” che permetta di superare la mentalità da teologia della missione.
Per giungere ad una matura teologia del dialogo bisogna riconoscere l’inarrestabile movimento di secolarizzazione ed evitare la reazione di immunizzarci dal mondo moderno chiudendoci in difensiva. Di seguito una lettura storica del Nostro rispetto a questo problema:
Si è prodotto la secolarizzazione della scienza a partire dal XVI secolo, quello della storia nel XVII (preparata dagli umanisti come Erasmo e Lorenzo Valla), quella della politica nel XIX (sebbene in questo campo eventi ed idee si fossero manifestati in modo decisivo fin dal XIII secolo in Francia e in Italia), e infine quella della morale nel XX secolo. Ogni volta con un nuovo “caso Galilei” (1616 e 1632), cioè un malinteso o un errore fatale: sia che ad essere condannato fosse Richard Simon (Histoire critique du Nouveau Testament, all’Indice nel 1682), sia che fosse l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert (breve di Clemente XII nel 1789), oppure Félicité de Lamennais e L’Avenir (Mirari vos, 1832), o ancora i metodi moderni di contraccezione (Humanae vitae, 1968). Inoltre, così come vi sono state correnti di pensiero portatrici di nuovi valori che si sono collocate contro la Chiesa poiché questi valori da essa sono stati rifiutati, vi sono anche valori nati altrove rispetto alla Chiesa perché da essa non riconosciuti. Fin dal XVI secolo, l’Umanesimo, che è ancora in prevalenza cristiano, non è più pienamente ecclesiale; in ogni caso, non è più teologico, e la teologia (fino alla seconda metà del XX secolo, e in certi ambiti fino ai nostri giorni) va ad abitare una sub-cultura clericale e scolastica rispetto alla cultura tout court che è la cultura “laica”[9].
Dopo questo excursus storico-teologico verificheremo gli esiti ed il tenore della già introdotta “Teologia letteraria”. Essa consta di tue aspetti: il primo è la scrittura teologica che presume di essere “letterariamente significativa”; la seconda è la recezione critica delle eco teologiche che possono dipanarsi dalle opere letterarie. Jossua crede fermamente che la vera teologia abbia una valenza letteraria, sia per la forma sia per i contenuti. Le questioni inerenti alla fede vengono approcciate in chiave narrativa, sovente con la scrittura di giornali (genere più vivo in Francia che in Italia). Une vie ne è stato un esempio; di seguito lavorerò su quello che considero il suo capolavoro: Si ton cœur croit… , senza preoccupazioni “sistematiche”, possiamo considerarlo né come un’opera di teologia classica, né un diario teologico o una biografia per brevi illuminazioni, bensì un racconto della fede. Reca la data conclusiva di compilazione: marzo 2006. La massima opera che raccoglie l’assiduo lavoro di critica letteraria del nostro è Pour une histoire religieuse de l’expérience littéraire, che raccoglie le indagini critiche su poeti e narratori composti tra il 1985 ed il 1998; quivi potremo apprezzare le doti critiche ed ermeneutiche del teologo domenicano. Sopra ho anticipato la tripartizione letterario-teologica con cui Jossua fonda il suo metodo di lavoro critico-letterario.
Alla fine prenderò la parola con un secondo excursus, questa volta personale, nel quale tenterò un bilancio di tutto il lavoro fatto ed un rilancio verso il futuro. Jean Pierre Jossua è riuscito a dare dignità, sia teologica, sia letteraria, alla sua intuizione portando fuori dalle sacche dell’apologetica la letteratura. Riesce a rispondere anche al desiderio di immaginare un argomentare teologico che possa cambiare e farsi “più prossimo” agli uomini del nostro tempo, proprio col riconsiderare l’atto umano del narrare? Quali sono i possibili sviluppi di questa impresa avviatasi ormai negli anni ’70? In ultimo formulo l’auspicio di contribuire ad introdurre nel nostro Paese la totalità del pensiero di un teologo le cui opere sono poco tradotte e si ignora quasi totalmente la grande ricchezza del suo lavoro critico sulla letteratura.
Domenico Cambareri
[1] Che ho più volte incontrato personalmente a Parigi.
[2] Karl Rahner, Letteratura e cristianesimo, San Palo, Cinisello Balsano (MI) 2014, pp. 70-71. Tanti sono i teologi che ravvisano la necessità di un confronto serio e non strumentale con il mondo della cultura. Vorrei segnalare il lavoro svolto dal gesuita Andrea Dall’Asta, a Milano presso il centro culturale «San Fedele» ed a Bologna presso la Fondazione «Card. Giacomo Lercaro», che relaziona la proposta cristiana al mondo ampio dell’arte contemporanea e non. Cfr. Andrea Dall’Asta, Dio storia dell’uomo, EMP, Padova 2013; Idem, La croce ed il volto. Percorsi tra arte, cinema e teologia, Ancora, Milano 2015.
[3] Ad esempio si veda: Giovanni Casati, Manuale di letture per le biblioteche, le famiglie e le scuole, Libreria Pontificia ed Arcivescovile “Romolo Ghirlanda”, Roma 1931. Il testo offre un discernimento sull’opportunità o meno di lettura di romanzi moderni ad uso degli educatori.
[4]
1. Textes... votre b.
2. Textes ayant une intention confessante mais échappant à des normes ou à
un langage confessionnel
3. Texte... votre C
[5] Mi riferisco al saggio Vere presenze, Garzanti, Milano 2006.
[6] Questa consapevolezza di una matrice letteraria della teologia ci riporta al nascere della teologia narrativa. Per un suo bilancio rimando a: Christoph Theobald, «Le ripercussioni della narratività sulla teologia», in Il cristianesimo come stile, 2 Voll., EDB, Bologna 2009, pp. 397-416.
[7] Garardus van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Universale scientificaa Boringhieri, Torino 1975, p. 151.
[8] Rainer Maria Rilke, Lettere ad un giovane poeta, CYA, Firenze 1944, p. 76.
[9] Jean Pierre Jossua, La letteratura e l’inquietudine dell’assoluto, Diabasis, Reggio Emilia, 2005, p. 28.