Prisca Agustoni è nata a Lugano, ha vissuto molti anni a Ginevra e oggi si divide tra la Svizzera e il Brasile, dove lavora come docente di letteratura italiana e comparata all’Università di Juiz de Fora, nel Minas Gerais. Poeta, traduttrice, scrive e si auto traduce in italiano, francese e portoghese. Verso la ruggine è il suo libro di poesie più recente (Interlinea, 2022).



Ci sono luoghi che cambiano dall’oggi al domani.

Non avevi mai visto il cantiere vicino al parco. 
In due settimane la ruspa ha scavato
il deserto tutt’attorno, 
la geometria dei fiori 
estirpati senza esitazione. 

La gru è venuta su dal nulla, 
spettro solitario.

Sarà ancora possibile immaginare un circo 
che si posa sulla radura, 
                          o una giostra
con le sue braccia d’acciaio 
tra le grida dei bambini 

mentre girano nel vuoto?




Disfare un mondo per erigerne un altro:

cocci rifiuti vibrazioni
la scavatrice spacca la terra
pietra levigata che intaglia
la civilizzazione del rumore e del vetro.

Mentre i bulldozer
squarciano le viscere della città
alla ricerca della sorgente,
del cuore sanguinante dell’animale,

si aprono ovunque
dei pozzi dei canali delle vene
dei bacini vicino al parco,

noi, al riparo dalla demolizione
e dalla cenere, aspettiamo

che l’istinto di vita
resista, nonostante lo scavo,
e fioriscano le ortiche

invisibili e primitive le radici





Passare dall’argilla al vetro ceramica

lo stesso istinto nel conservare la traccia
come degli scriba contemporanei

forgiare dei pittogrammi
disegni di uccelli arcaici
sulle superfici in litio,

fare provvisione di cereali e spezie
nel caso in cui fosse proibito 
uscire dalle mura,

indietreggiare come dei granchi
dalla scrittura delle parole 
alla scrittura delle cose 

di fronte alle macerie di questa nuova Uruk




 

Prendere i blocchi in lego di tuo figlio per dimenticare il resto, giocare agli ingegneri e costruire delle case, delle    terrazze fiorite, dei quartieri, delle città intere, poi giardini, parchi, boschi, delle giungle, il tutto in miniatura. I gesti sono delicati: allineare, montare, incastrare, spostare,  distruggere, ricominciare da capo. Aggiungere degli alberi, togliere le auto, spostare qualche fabbrica.

Una volta la città pronta, distruggerla, raderla al suolo come dopo la guerra, sapendo molto bene che non è per davvero, che è solo per gioco e che la vita, fuori, il tempo, fuori, la gente, fuori, il verde, fuori, le formiche, fuori, restano in piedi, resistono. 

                               Solidi ed eterni.





Questi esseri primitivi hanno adesso delle braccia.
Sono le passerelle che sospendono nel vuoto gli operai, lassù, tra un’ala e l’altra del palazzo. Sono delle gambe che si succedono, veloci, braccia e gambe, gambe e muscoli, lassù, appesi al nulla, nel viavai delle vite che ballano il valzer del ponteggio. Uno-due-tre, uno-due-tre, il vuoto, la città inabissata, la vertigine, il cantiere è una nave incagliata, gli operai che ballano veloci sul filo, tra le vele chiuse, i loro berretti gialli in alto come gli astri di un cielo metallico.
Sotto, siamo solo noi gli spettatori silenziosi. 

E li guardiamo, come se fossero dei trapezisti al circo. 
Con la paura mischiata alla voglia che cadano 
                                                   e che non cadano 
giù.






 

Un disastro di fuliggine e cenere

così dev’essere stato
il primo giorno

la costruzione e la rovina
assediando la pianura

poi, di getto, lì in mezzo
              la torre

questa sfida infinita
per confondere il destino della gente

e tra la faglia e lo spavento
erigere una città

un limite intimo
               dove vivere 
è la nostra condanna





Torniamo più tardi per verificare se sono partiti

se hanno reso al quartiere 
la memoria dei morti,
se hanno fatto piazza pulita delle ombre. 

Ma il volo non ha avuto luogo.
Sono sempre lì,

delle erezioni eterne a sfidare la radura.



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